martedì 26 luglio 2011

L' assegno di mantenimento per il figlio

Assegno di mantenimento sino all'indipendenza economica del figlio

L'obbligo dei genitori al mantenimento del figlio, dopo il compimento dei 18 anni, resta «finché i genitori o il genitore interessato non provi che il figlio ha raggiunto l'indipendenza economica oppure che è stato da loro posto nella concreta posizione di poter essere autosufficiente, ma non ne abbia tratto profitto per colpa sua». Così ha stabilito la Corte di Cassazione Civile, Sez. III, Sent. 16.06.2011 n. 13184. Il caso ha riguardato una coppia separata in conflitto sulla valenza giuridica all'erogazione degli alimenti per il figlio maggiorenne affidato alla madre sin dalla minore età. 

Dopo varie vicissitudini la problematica è approdata in Cassazione cheha ritenuto valide le motivazioni addotte dall'ex moglie perchè «la legittimazione del figlio divenuto maggiorenne non esclude quella della madre affidataria e titolare dell'assegno di mantenimento per il figlio in base alla sentenza di divorzio, dovendosi ribadire che il coniuge separato o divorziato, già affidatario del figlio minorenne, è legittimato anche dopo il compimento da parte del figlio della maggiore età, ove sia con lui convivente e non economicamente autosufficiente, ad ottenere dall'altro coniuge un contributo al mantenimento del figlio» e aggiunge che solo se il figlio "incolpevolmente non ha raggiunto l'indipendenza economica".

E' un obbligo che sorge direttamente ed in istantanea dal rapporto di filiazione e gravante non solo sui genitori nel caso di figli nati nell'ambito del matrimonio, ma, allo stesso modo, nel caso di riconoscimento del figlio naturale. La norma costituzionale in materia di mantenimento è ribadita dall'art. 147 del Codice Civile il quale esplicitamente prevede che "il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l'obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle capacità, dell'inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli", precisando, nel successivo articolo, che i coniugi devono adempiere l'obbligo in parola contribuendo in proporzione alle rispettive sostanze e capacità di lavoro professionale e casalingo.

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lunedì 18 luglio 2011

Licenziabilità durante il Periodo di Prova

È intervenuta nuovamente la Corte di Cassazione a chiarire alcuni dubbi interpretativi in merito alla licenziabilità durante il periodo di prova.

Per la Corte è possibile licenziare un lavoratore in prova senza l'obbligo della motivazione (Sent. n. 23227 del 17 novembre 2010).

In effetti, ai sensi dell'articolo 2096 del codice civile, l'assunzione in prova del prestatore di lavoro per periodo di prova deve risultare da un atto scritto e durante questo periodo ciascuna delle parti può recedere dal contratto senza l'obbligo di preavviso o d'indennità.

Il codice civile ribadisce, però, che se la prova è stabilita per un tempo minimo necessario, la facoltà di recesso non può esercitarsi prima della scadenza del termine.

La Corte ha chiarito che le tutele contenute nella Legge 15 luglio 1966 n.604, norme sui licenziamenti individuali, si applicano nei confronti dei prestatori di lavoro che rivestano la qualifica di impiegato e di operaio, ai sensi dell'art. 2095 c.c. e, per quelli assunti in prova, si applicano dal momento in cui l'assunzione diviene definitiva e, in ogni caso, quando sono decorsi sei mesi dall'inizio del rapporto di lavoro. 

In buona sostanza, il rapporto di lavoro subordinato costitutito con patto di prova è sottratto, per il periodo di sei mesi, alla disciplina dei licenziamenti individuali, ed è caratterizzato dal potere di recesso da ambo le parti.

La discrezionalità  del datore di lavoro si esplica senza obbligo di fornire al lavoratore alcuna motivazione, neppure in caso di contestazione, sulla valutazione della capacità e del comportamento professionale del lavoratore stesso.

La Corte ribadisce che la discrezionalità non deve intendersi, però, come assoluta, ma deve essere coerente con la causa del patto di prova; così il lavoratore che non dimostri il positivo superamento della prova o l'imputabilità del recesso a cause estranee alla prova stessa, non può eccepire ne dedurre in sede giurisdizionale la nullità del licenziamento.

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mercoledì 13 luglio 2011

Perimento Totale o Parziale dell’Edificio

"Se l'edificio perisce interamente o per una parte che rappresenti i tre quarti del suo valore, ciascuno dei condomini può richiedere la vendita all'asta del suolo e dei materiali, salvo che sia diversamente convenuto. Nel caso di perimento di una parte minore, l'assemblea dei condomini delibera circa la ricostruzione delle parti comuni dell'edificio e ciascuno è tenuto a concorrervi in proporzione dei suoi diritti sulle parti stesse. L'indennità corrisposta per l'assicurazione relativa alle parti comuni è destinata alla ricostruzione di queste. Il condomino che non intende partecipare alla ricostruzione dell'edificio è tenuto a cedere agli altri condomini i suoi diritti, anche sulle parti di sua esclusiva proprietà, secondo la stima che ne sarà fatta, salvo che non preferisca cedere i diritti stessi ad alcuni soltanto dei condomini" (art. 1128 c.c.).

Costante giurisprudenza concorda nel ritenere che il perimento totale di un edificio condominiale determini l'estinzione del condominio, per mancanza dell'oggetto, venendo meno il rapporto di servizio tra le parti comuni e le porzioni di proprietà esclusiva (non più esistenti) e permanga soltanto la comunione pro-indiviso tra gli ex condomini sull'area di risulta.

Ne deriva che, in caso di mancata ricostruzione dell'immobile (nell'ipotesi seppur non consentita dalla disciplina urbanistica) e di mancata vendita all'asta del suolo e dei materiali (non richiesta da nessuno dei comproprietari), può porsi fine alla predetta comunione con lo scioglimento della stessa che, in caso di d'indivisibilità del suolo, deve essere effettuato a norma degli artt. 1116 e 720 c.c., attribuendo, preferibilmente il bene per intero al titolare della quota maggiore (o ai titolari della quota maggiore, ove questi ne richiedano congiuntamente l'attribuzione), con l'addebito dell'eccedenza, corrispondendosi, cioè, agli altri condomini la somma equivalente del valore della loro quota.

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mercoledì 6 luglio 2011

Il Mobbing Verticale


"Per mobbing si intende una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisico-psichico e del complesso della sua personalità"(Corte di Cassazione, Sent. n.12048 del 31.05.2011). 

Ai fini della confìgurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro – precisa la Suprema Corte -  sono rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fìsica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio.

La sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze deve essere verificata  procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi - considerando l'idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell'azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza della violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato. 

La sentenza sintetizza gli elementi costitutivi del mobbing e lascia intendere che singole condotte del datore di lavoro, seppure ritenute fortemente biasimevoli, non consentono di provare l'intento persecutorio del datore e, quindi, di provare l'esistenza di un atteggiamento emarginante, discriminatorio o persecutorio riconducibile al mobbing.

Avv. Francesca Marrese

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martedì 28 giugno 2011

La Mediazione tra Medico e Paziente

Dal 21 marzo 2011, anche la delicata materia dei conflitti tra medico e paziente diviene oggetto dell'istituto della mediazione (D. Lgs. n.28 del 4 marzo 2010 nonché dal decreto n.180 del 18 ottobre 2010).

Questo significa che medico e paziente, prima di rivolgersi ad un magistrato, dovranno obbligatoriamente accedere all'istituto della mediazione attraverso un Organismo di conciliazione iscritto regolarmente nel Registro istituito dal Ministero di Giustizia, al fine di tentare una conciliazione .

Il mediatore, tuttavia, sempre in base al citato decreto legge, è " la persona o le persone fisiche che, individualmente o collegialmente, svolgono la mediazione rimanendo prive, in ogni caso, del potere di rendere giudizi o decisioni vincolanti per i destinatari del servizio medesimo ".

La struttura del procedimento di mediazione sanitaria dovrebbe essere correlata anche all'impostazione di metodo e all'organizzazione del mediatore il quale dovrà cercare di modulare le fasi del procedimento conciliativo sulla base di quelli che sono gli effettivi bisogni delle parti nella fattispecie concreta.

Nell'ambito della mediazione sanitaria in particolare, la figura del terzo professionista chiamato a conciliare medico e paziente, dovrà condurre, gestire ed affrontare la mediazione tenendo bene in considerazione non solo i bisogni e gli interessi espressi ma soprattutto quelli più nascosti tra le parole non dette.

Un modello base del procedimento sarà comunque utile al fine di evitare eventuali fenomeni di caos che i conflitti in genere possono comportare, soprattutto quando questi ultimi tendono alla c.d. escalation rischiando di compromettere l'esito della mediazione.

Sotto questo ultimo profilo, ad esempio, nella fase introduttiva il mediatore deve cercare di illustrare al meglio alle parti coinvolte i passaggi della mediazione per poi richiamarli alla loro medesima attenzione quando discussione ed emotività prevalgono sugli atteggiamenti costruttivi.

Avv. Francesca Marrese

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IMMISSIONI

"Il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi . Nell'applicare questa norma l'autorità giudiziaria deve contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà. Può tener conto della priorità di un determinato uso" (art. 844 c.c.) .

Detta norma trova applicazione anche nei rapporti tra comproprietari di un edificio in condominio ed è diretta ad equilibrare i rapporti tra il proprietario che produce le immissioni (per ragioni legate all'esercizio di un'attività economica o al semplice godimento della sua proprietà) ed il proprietario confinante che subisce passivamente tali immissioni.

La valutazione circa la tollerabilità delle immissioni è legata anche alla condizione dei luoghi; non è possibile, pertanto, indicare con assoluta precisione una soglia oltre la quale l'immissione è da considerarsi illecita ma la relativa valutazione è demandata al giudice che dovrà valutare ogni singolo caso .  
Inoltre, la norma prevede espressamente che le ragioni dei proprietari siano contemperate con quelle della produzione industriale (e in generale delle attività economiche), il che può comportare che il giudice autorizzi la prosecuzione delle attività industriali dietro pagamento di un indennizzo ai proprietari limitrofi.

Per quanto riguarda le attività commerciali, occorre sottolineare che il rispetto delle norme regolamentari che limitano le attività rumorose non esclude che le immissioni risultino di fatto intollerabili ai sensi dell'art. 844 c.c.

La norma citata ha carattere dispositivo, per cui nulla vieta che i proprietari adottino (ad es. nel regolamento condominiale) norme diverse aventi maggior rigore: in tal caso la valutazione circa l'intollerabilità delle immissioni sarà effettuata alla luce dei criteri stabiliti nel regolamento condominiale.

Avv. Francesca Marrese

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Inammissibilità della Revoca della Donazione per Ingratitudine

Una recentissima pronuncia della Corte di Cassazione, II Sez. (sent. 31 marzo 2011, n. 7487) ha dichiarato che non ricorre l'ipotesi di revoca della donazione per ingratitudine quando la donataria, stante la situazione di conflittualità tra i genitori donanti, chieda ad uno di questi di abbandonare l'abitazione acquistata con il denaro ottenuto dalla liberalità paterna e materna.

Nel caso specifico, due genitori avevano donato alla loro figlia il denaro occorrente per l'acquisto di un'abitazione, successivamente destinata a casa familiare, all'interno della quale vennero, successivamente, accolti sia il padre che la madre. La donataria, a causa della particolare situazione di conflittualità intercorrente tra i suoi genitori, decise di diffidare il padre a lasciare libera tale abitazione e a traslocare in un altro alloggio. Secondo tali giudici, l'ingiuria grave richiesta, ex art. 801 c.c., quale presupposto necessario per la revocabilità di una donazione per ingratitudine, pur mutuando dal diritto penale il suo significato intrinseco e l'individuazione del bene leso, si distacca, tuttavia, dalle previsioni degli artt. 594 e 595 cod. pen., e consiste in un comportamento suscettibile di ledere in modo rilevante il patrimonio morale del donante ed espressivo di un reale sentimento di avversione da parte del donatario, tale da ripugnare alla coscienza collettiva. Si è ritenuto, quindi, di escludere che ricorrano gli estremi di tale figura di ingratitudine nel comportamento della figlia donataria. 

Tale comportamento è stato valutato non come manifestazione di un atteggiamento di disistima delle qualità morali del padre donante o di mancanza di rispetto nei suoi confronti, né come un affronto animoso contrastante con il senso di riconoscenza e di solidarietà ma come presa d'atto, da parte di costei, della frattura tra i suoi genitori, dipendente dalla loro disaffezione e distacco spirituale, e, quindi, del sopravvenire di una condizione tale da rendere incompatibile, allo stato, la prosecuzione della convivenza di entrambi i donanti nell'abitazione acquistata con il danaro ricevuto in liberalità.

Avv. Francesca Marrese

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martedì 7 giugno 2011

Rimedi posti a tutela del consumatore


In caso di anomalie materiali del bene acquistato (ad es. vizi della cosa venduta, mancanza di qualità del bene, etc.), ed indipendentemente dall'entità di esse, l'art. 130 del codice del consumatore accorda al compratore dei rimedi.

A sua scelta, il consumatore può chiedere la riparazione o la sostituzione gratuita della cosa. Tuttavia, quando la sostituzione o la riparazione siano impossibili o eccessivamente onerose, oppure il venditore non abbia riparato o sostituito il bene in un congruo termine dalla richiesta, o, da ultimo, quando la sostituzione o la riparazione effettuata abbia arrecato notevoli inconvenienti al consumatore, questi può richiedere, sempre a sua scelta, una riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto. Per l'ultimo comma dell'art. 130 cod. cons., tuttavia, non potrà disporsi la risoluzione del contratto ove non siano state possibili, o si siano rivelate eccessivamente onerose, la sostituzione e la riparazione e il difetto di conformità sia di lieve entità.

Va comunque detto che la nuova disciplina non chiarisce come debba essere effettuata la scelta del compratore fra i diversi rimedi ed in che limiti la scelta già compiuta sia modificabile. Peraltro, il legislatore italiano ha di fatto contratto la facoltà di scelta del rimedio da parte del compratore, introducendo una procedimentalizzazione di tale scelta così scandita:

a) il consumatore denuncia il difetto di conformità;

b) il consumatore richiede uno specifico rimedio, con domanda giudiziale o in via stragiudiziale:

b1) il compratore non può revocare la scelta compiuta, sicché, chiesta la sostituzione, non può chiedere la riparazione, e viceversa, né può chiedere la riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto;

b2) il venditore, entro un congruo termine, deve attuare il rimedio richiesto;

b3) il consumatore può comunque accettare un rimedio alternativo a quello richiesto, se offerto dal venditore in quanto disponibile;

c) il consumatore non richiede alcun rimedio:

c1) il consumatore può accettare l'offerta di rimedio alternativo disponibile formulata dal venditore;

c2) il compratore può respingere l'offerta di rimedio alternativo disponibile formulata dal venditore soltanto scegliendo un altro rimedio tipico, sempre entro il termine di prescrizione di ventisei mesi dalla consegna ex art. 132 comma 4 cod. cons..

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lunedì 30 maggio 2011

Risarcimento del Danno per Demansionamento

Risarcimento del danno per demansionamento

L' articolo 13 della L. n. 300/1970 disciplinando di fatto il c.d. "demansionamento", così testualmente stabilisce: "il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta, e l'assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Ogni patto contrario è nullo". 

In ragione di tale dettato normativo, il dipendente deve essere assegnato alla mansione per cui è stato assunto, cosicché, si  profilerebbe la fattispecie del "demansionamento" quando il datore del lavoro conferisce al lavoratore un compito differente dall'originario sia in termini di sottrazione di compiti qualitativi che quantitativi, con il conseguente aumento del danno risarcibile in relazione alla privazione stessa. A causa di questa particolare condizione che può verificarsi sul luogo di lavoro, il dipendente può agire in giudizio per chiedere la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione nelle mansioni svolte precedentemente e per cui è stato assunto. Tuttavia, si sono concretizzate delle deroghe in capo ai datori di lavoro, tanto da richiedere il necessario intervento della Suprema Corte, al fine di dirimere le relative controversie che si sono poste in essere nel corso degli anni. 

Una recente pronuncia della S.C. di Cassazione del 4 Marzo 2011 (sent. n. 5237), ha statuito che in caso di accertato demansionamento professionale, la risarcibilità del danno all'immagine derivato al lavoratore a cagione del comportamento del datore di lavoro presuppone che la lesione dell'interesse sia grave, nel senso che l'offesa superi una soglia minima di tollerabilità e che il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi.

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giovedì 26 maggio 2011

Calamità Naturali e Benefici Previdenziali dei Lavoratori Agricoli

Calamità  naturali e benefici previdenziali a favore dei lavoratori agricoli a tempo determinato 

Il comma 65, art. 1 della legge 24.12.2007 n. 247 ha sostituito il comma 6 dell'art. 21 della legge 23.07.1991 n. 223 così modificando sostanzialmente la normativa relativa al riconoscimento dei benefici in conseguenza agli eventi calamitosi.

In concreto, la norma novellata riconosce al lavoratore lo stesso numero di giornate prestate nell'anno precedente presso l'azienda che ha subito danni da calamità.

Per il riconoscimento del beneficio assicurativo nei confronti dei lavoratori agricoli sono previste le seguenti condizioni:

  • il lavoratore deve essere stato occupato per almeno cinque giornate presso un'impresa agricola ;
  • l'impresa agricola deve ricadere in un Comune calamitoso;
  • il Comune calamitoso deve essere delimitato ai sensi dell'art. 1, comma 1079, legge 27.12.2006 n.296 e quindi le singole Regioni avranno il compito di delimitare le aree colpite da avversità atmosferiche eccezionali comprese nel Piano assicurativo agricolo annuale;
  • l'impresa agricola deve aver beneficiato delle misure volte ad incentivare la stipula di contratti assicurativi contro i danni della produzione e delle strutture ed avuto anche il risarcimento del danno da parte dell'assicurazione.

Per la gestione delle imprese che hanno subito danni per calamità i cui riflessi si ripercuotono sui lavoratori agricoli a tempo determinato occorrerà seguire la consueta procedura di modalità di accesso dell'invio telematico del DMAG-Unico.

Considerato, poi, che detto beneficio opera anche nei riguardi dei piccoli coloni e compartecipanti familiari, la medesima dichiarazione dovrà essere presentata su modulo cartaceo dai concedenti qualora risultino operare in un Comune colpito dagli eventi inseriti nel piano assicurativo annuale ed abbiano attivato la procedura di rimborso.


L'Avvocato, 

Francesca Marrese

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lunedì 16 maggio 2011

FONDO VITTIME DELL’AMIANTO


Il Fondo Vittime Dell'Amianto, previsto nel 2007, è entrato in vigore solo il 13.01.2011 il Fondo per le vittime dell'amianto, fondo destinato al sostegno dei lavoratori malati ed al sostentamento dei familiari di lavoratori deceduti per malattie dovute al contatto con la sostanza nociva .

Il Fondo è  istituito presso l'INAIL, con contabilità autonoma e separata ed è finanziato con risorse provenienti dallo Stato (per ¾) e dalle imprese .

Finalità  del Fondo è l'erogazione dello speciale beneficio a favore dei lavoratori titolari di rendita diretta, anche unificata, ai quali sia stata riconosciuta dall' Inail e dall'ex Ipsema, una patologia asbesto-correlata per esposizione all'amianto e alla fibra "fiberfrax", nonché i loro familiari titolari di rendita ai supersiti.

Nello specifico, hanno diritto a detta prestazione aggiuntiva:

  • i lavoratori titolari di rendita diretta, anche unificata, ai quali sia stata riconosciuta dall'Inail e dall'Ipsema, una patologia asbesto-correlata per esposizione all'amianto e alla fibra fiberfrax, la cui inabilità o menomazione abbia concorso al raggiungimento del grado minimo indennizzabile in rendita ( pari o superiore all'11% in regime testo unico e al 16% in regime danno biologico);
  • i familiari dei lavoratori vittime all'amianto e della fiberfrax, individuati ai sensi dell'art. 85 del Testo Unico, titolari di rendita a superstiti, qualora la patologia asbesto-correlati abbia avuto un ruolo nella morte dell'assicurato.

La prestazione è fissata in una misura percentuale della rendita. Per gli anni 2008 e 2009 la misura è stata fissata al 20%  ed è erogata in una unica soluzione entro il 31.12.2001 mentre per il 2010 al 15% da erogare entro il 30.06.2012.

Dal 2011, prestazione aggiuntiva è erogata mediante due acconti, finanziati utilizzando le risorse provenienti dal bilancio dello stato e un conguaglio utilizzando le risorse annue derivanti dall'effettiva riscossione dell'addizionale dovuta dalle imprese.

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lunedì 9 maggio 2011

Il Contratto di Comodato

Il comodato è un contratto essenzialmente gratuito che produce, in capo al comodatario, effetti obbligatori quali: - l'obbligo di costituire e conservare il bene, sia esso mobile o immobile, con la diligenza del buon padre di famiglia; - di non servirsene che per l'uso determinato dal contratto o dalla natura della cosa; - di non concedere a terzi in godimento il bene senza il consenso del comodante; - di restituire il bene alla scadenza convenuta o quando se n'è servito in conformità del contratto (artt. 1803 e segg. c.c.).

Esso viene posto in essere principalmente tra soggetti legati da vincoli di amicizia o di parentela cosicché, come previsto dall'art. 1811 c.c., alla morte del comodatario, il comodante può chiedere agli eredi l'immediata restituzione del bene, essendo venuto meno il soggetto per il quale specificamente il contratto era stato realizzato.

Il comodato viene stipulato generalmente per un tempo o per un uso determinato, con l'obbligo in capo al comodatario, della restituzione del bene alla scadenza convenuta.

Si definisce, invece, comodato precario quello in assenza di un termine e dell'impossibilità di desumerne uno dall'uso cui la cosa è destinata. In questi ultimi casi, il comodatario è tenuto a restituire la cosa in ogni momento, appena il comodante la richieda (art. 1810 c.c.) e senza che ricorra alcun particolare motivo.

Come ha avuto modo di esprimersi la Suprema Corte, la figura del comodato precario, si caratterizza " per la previsione che la scadenza della validità del vincolo dipenda potestativamente dalla volontà del comodante, il quale può farla maturare ad natum mediante richiesta di restituzione del bene,. Tale richiesta determina l'immediata cessazione del diritto del comodatario alla disponibilità e al godimento della cosa, con la conseguenza che, una volta sciolto per iniziativa unilaterale del comodante, il vincolo contrattuale, il comodatario che rifiuti la restituzione della cosa, viene ad assumere la pozione di detentore sine titolo del bene altrui, salvo che dimostri di poterne disporre in base ad altro rapporto diverso dal precario" (Cass. n. 5987/2000).


Avvocato Francesca Marrese
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giovedì 28 aprile 2011

DANNO ALL’IMMAGINE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE .

Per diritto all’immagine dell’ente pubblico si intende il diritto al conseguimento, al mantenimento ed al riconoscimento della identità di persona giuridica pubblica, alla tutela della “estimazione sociale”, “reputazione”, “prestigio” dell’ente pubblico, giuridicamente tutelato in forza dei principi di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 97 della Costituzione.


Una pronuncia della Corte dei Conti, a sezioni riunite, del 23.04.03, ha statuito che il danno all’immagine di un ente pubblico è da intendersi altresì quale danno patrimoniale in senso ampio, rientrante nella più generale figura del danno esistenziale. 


Secondo quanto prescritto dalla Carta Costituzionale ex art. 97(che impone imparzialità, legalità e buon andamento degli uffici pubblici) ed ex art. 54( che impone peculiari obblighi di disciplina ed onore ai soggetti che esercitano pubbliche funzioni), appare evidente che l’immagine della Pubblica Amministrazione si connota per il rispetto della legalità e del buon andamento dell’attività svolta, per cui le lesioni di tali principi ben possono determinare perdita di immagine. Occorre, poi,  osservare che titolare di siffatto interesse non è propriamente l’ente collettivo, bensì lo Stato-comunità nel suo complesso (gli amministrati), ed è a favore di esso, e non dello Stato-persona (che semmai è il soggetto passivo dei doveri di legalità, imparzialità e buona andamento), che l’art. 97 Cost. impone una riserva di legge e specifici doveri all’amministrazione ed ai suoi rappresentanti.


Le voci di danno risarcibile, pertanto, potrebbero allora estendersi sino a ricomprendervi il danno che, pur non ricollegabile immediatamente e direttamente alla P.A. come ente pubblico sia, di fatto, pregiudizievole agli interessi collettivi fondamentali, riconosciuti meritevoli di tutela giuridica. 


Peraltro, già una innovativa giurisprudenza ha ricostruito il danno erariale come danno alla collettività, ponendo le basi per allargare le voci di pregiudizio risarcibile fino a ricomprendervi i danni all’ambiente, al paesaggio, alla salute; si è già riconosciuta, in tal modo, la possibilità di attribuire una vera e propria posizione soggettiva giuridicamente rilevante ai portatori di interessi collettivi, ampliando le maglie del risarcimento alle ipotesi di lesione agli interessi della collettività.


L' Avvocato Francesca Marrese
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mercoledì 13 aprile 2011

Limiti Soggettivi di Applicazione del Diritto di Rappresentazione.

In una recente pronuncia, la Corte di Cassazione torna ad occuparsi di un tema classico quando si discorre di limiti di applicazione del diritto di rappresentazione, l'istituto in virtù del quale subentrano i discendenti legittimi o naturali nel luogo e nel grado in cui del loro ascendente, in tutti i casi in cui questi non può ( per avvenuto decesso) o non vuole ( per rinuncia) accettare l'eredità o il legato.

I Giudici di legittimità hanno recentemente precisato che "l'art. 416 del codice civile circoscrive i limiti di applicazione dell'istituto della rappresentazione, sia nella successione legittima sia in quella testamentaria, nel senso che essa ha luogo a favore dei discendenti legittimi del chiamato che, nella linea retta sia figlio, e in quella collaterale, fratello o sorella del defunto"(sentenza n. 22840 del 28 ottobre 2009).

La Cassazione sostiene quindi che la rappresentazione ha luogo solo a favore dei discendenti del chiamato che sia figlio, ovvero fratello o sorella del defunto: "ciò dispone l'art. 468 c.c., circoscrivendo l'ambito di applicazione dell'istituto nei confronti dei soggetti a cui favore opera, e cioè della persona del rappresentante e del rappresentato. Sicchè, per aversi rappresentazione nella linea retta, è necessario che il chiamato sia figlio della persona della cui eredità si tratta, e nella linea collaterale che sia fratello o sorella del de cuius".

Sono invece esclusi dalla rappresentazione i discendenti dei collaterali di terzo o ulteriore grado: ond'è che quando (…) gli istituiti con testamento siano nipoti ex frate e alcuni di essi non possano accettare l'eredità perché premorti al testatore, non si fa  luogo alla rappresentazione perché manca l'istituzione del fratello o della sorella che, nella linea collaterale, è la persona che la legge considera debba essere rappresentata.

La rappresentazione può dunque avere luogo all'infinito ( in linea retta e in linea collaterale) ma solo nell'ipotesi in  cui il primo chiamato all'eredità è un figlio o un fratello del defunto.

La rappresentazione, invece, non opera se con testamento viene istituito un soggetto diverso, anche se si tratta di un discendente in linea retta del defunto. 

Avvocato Francesca Marrese

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EQUA RIPARAZIONE PER I PROCESSI TROPPO LUNGHI

La legge n.89 del 24 marzo 2001, meglio nota come legge Pinto, ha introdotto nel nostro ordinamento lo strumento della equa riparazione a favore di "chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali" in relazione, al mancato rispetto del "termine ragionevole" di cui all'art. 6, paragrafo 1, della predetta Convenzione : "Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e parziale, costituito per legge".

In virtù  della citata normativa, è previsto il riconoscimento di una somma di denaro per ciascun anno di eccessiva durata del processo, ammontante a circa 1.000/1.500 euro, che può aumentare sino a 2.000 euro nei casi di particolare rilievo come, ad esempio, nei procedimenti pensionistici o penali, nelle cause di lavoro, nelle liti che incidano sulla vita e sulla salute).

Per "periodo ragionevole, solitamente si intende: - 3 anni per i procedimenti di primo grado - 2 anni per i procedimenti di secondo grado; - 1 anno per la Cassazione.

Queste, ovviamente, non sono regole comune a tutti i processi poiché, nello specifico, occorrerà vagliare il singolo caso, considerando, di volta in volta, la complessità della fattispecie ed il comportamento processuale tenuto dalle parti e dal giudicante.

E' possibile presentare il ricorso per equa riparazione a prescindere dalle sorti della lite e quindi, sia nelle ipotesi in cui si vinca, sia in quelle in cui si perda o si concilii la causa davanti al giudice.

Inoltre, la domanda potrà essere presentata anche per una causa ancora pendente; in detta ipotesi potrà essere richiesta la liquidazione di una somma in ragione degli anni oltrepassanti il consentito.
La domanda si propone dinanzi la Corte di Appello territorialmente competente, esponendo i fatti e le ragioni in maniera dettagliata, avendo cura di documentare la lungaggine processuale.

Il processo si conclude con il provvedimento giudiziale che riveste la forma di decreto immediatamente esecutivo in forza del quale lo Stato Italiano viene condannato a corrispondere al ricorrente l'indennizzo.

Il decreto va notificato, a cura del difensore, all'Avvocatura dello Stato. 

Avvocato Francesca Marrese
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ASSICURAZIONE CASALINGHE E SICUREZZA LAVORO DOMESTICO

ASSICURAZIONE CASALINGHE E SICUREZZA LAVORO DOMESTICO 

“Gent.mo Avvocato, sono una casalinga e vorrei sapere se esiste una specifica tutela assicurativa contro gli infortuni domestici”. 

Carissima Lettrice,

con sentenza n.28 del 1995, la Corte Costituzionale ha affermato il principio dell’equiparabilità del lavoro svolto all’interno della famiglia alle altre forme di lavoro, riconoscendo il diritto alla tutela previsto dall’art. 35 della Costituzione.
Il legislatore italiano ha così recepito detto principio ed emanato la Legge n.493 del 1999 recante Norme per la tutela della salute nelle abitazioni ed istituzione dell’assicurazione  contro gli infortuni domestici”.

L’assicurazione contro gli infortuni domestici è gestita dall’INAIL, attraverso  un Fondo autonomo speciale con contabilità separata, al quale sovrintende un Comitato amministratore.
L’assicurazione comprende i casi di infortunio avvenuti, per causa violenta o virulenta, in occasione  ed a causa di lavoro in ambito domestico, a condizione che dall’infortunio sia derivata una inabilità permanente al lavoro pari o superiore al 33% .
Soggetti obbligati all’assicurazione sono i componenti del nucleo familiare (uomo o donna) che abbiano un’età compresa tra i 18 e 65 anni che svolgono, in via non occasionale, senza vincolo di subordinazione ed a titolo gratuito, attività in ambito domestico finalizzata alla cura delle persone che costituiscono il proprio nucleo familiare ed alla cura dell’ambiente domestico ove dimora lo stesso nucleo familiare.

L’obbligo assicurativo viene meno se i componenti del nucleo familiare svolgono altre attività che comporti l’iscrizione presso altre forme obbligatorie di previdenza sociale.
La legge n.493/1999 individua il luogo di lavoro della casalinga che è dato dall’abitazione ove dimora abitualmente il nucleo familiare, comprensiva delle pertinenze(soffitte, cantine, giardini, balconi)e delle parti comuni condominiali ( terrazzi, scale, androni); è stata compresa anche la dimora temporanea per e vacanze solo se situata su territorio italiano.

Il premio assicurativo pro capite è stato fissato in euro 12,91 per anno solare, deducibile ai fini fiscali, ed è posto a carico della persona assicurata.
Sono invece esonerati dal versamento di detto premio assicurativo, ed in questo caso il costo dell’assicurazione viene sostenuto dallo Stato, i soggetti titolari di un reddito proprio non superiore ad € 4.648,11 annui e un reddito familiare non superiore ad € 9.296,22.

L’iscrizione all’assicurazione viene effettuata mediante versamento del premio assicurativo con le modalità stabilite dall’INAIL. In ipotesi di inosservanza dell’obbligo del versamento del premio assicurativo alle scadenze previste (entro il 31 gennaio di ogni anno) è dovuta una somma aggiuntiva di importo non superiore all’ammontare del premio stesso, graduabile in relazione al periodo dell’inadempimento  secondo i criteri di graduazione stabiliti dal Comitato amministratore del fondo, fatti salvi gli ulteriori accertamenti che l’Istituto assicuratore ritiene di dover effettuare.

Il soggetto in regola con il pagamento del premio o, se esonerato, in regola con il solo obbligo della iscrizione, ha diritto alla corresponsione di una rendita vitalizia rapportata al grado dell’inabilità stessa, quando dall’infortunio sia derivata un’inabilità permanente tale da ridurre l’attitudine al lavoro in misura pari o superiore al 33%.  A seguito di ulteriori interventi normativi la tutela è stata estesa ai casi mortali, prevedendo una rendita ai superstiti ed il diritto anche all’assegno funerario.

L’assicurato, il quale non riconosca fondati i motivi del provvedimento dell’Istituto assicuratore riguardante l’obbligo assicurativo, la contribuzione, il diritto alla prestazione stessa, nonché la misura della prestazione stessa, può presentare ricorso al Comitato amministratore del Fondo autonomo speciale, per il tramite della Sede INAIL che ha emanato il provvedimento, da spedire con lettera raccomandata con ricevuta di ritorno o da presentare con lettera della quale abbia ritirato ricevuta, entro novanta giorni dalla data del provvedimento impugnato, comunicandone i motivi del gravame ed allegando gli elementi giustificativi dell’opposizione.

Non ricevendo risposta nel termine di centoventi giorni dalla data di presentazione del ricorso e qualora la risposta non gli sembri soddisfacente, l’assicurato potrà adire l’Autorità giudiziaria. L’azione giudiziaria per conseguire la rendita di inabilità, infine, si prescrive nel termine di tre anni dal giorno dell’infortunio con postumi permanenti indennizzabili.

Avvocato Francesca Marrese
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