Risarcimento del danno per demansionamento
L' articolo 13 della L. n. 300/1970 disciplinando di fatto il c.d. "demansionamento", così testualmente stabilisce: "il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta, e l'assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Ogni patto contrario è nullo".
In ragione di tale dettato normativo, il dipendente deve essere assegnato alla mansione per cui è stato assunto, cosicché, si profilerebbe la fattispecie del "demansionamento" quando il datore del lavoro conferisce al lavoratore un compito differente dall'originario sia in termini di sottrazione di compiti qualitativi che quantitativi, con il conseguente aumento del danno risarcibile in relazione alla privazione stessa. A causa di questa particolare condizione che può verificarsi sul luogo di lavoro, il dipendente può agire in giudizio per chiedere la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione nelle mansioni svolte precedentemente e per cui è stato assunto. Tuttavia, si sono concretizzate delle deroghe in capo ai datori di lavoro, tanto da richiedere il necessario intervento della Suprema Corte, al fine di dirimere le relative controversie che si sono poste in essere nel corso degli anni.
Una recente pronuncia della S.C. di Cassazione del 4 Marzo 2011 (sent. n. 5237), ha statuito che in caso di accertato demansionamento professionale, la risarcibilità del danno all'immagine derivato al lavoratore a cagione del comportamento del datore di lavoro presuppone che la lesione dell'interesse sia grave, nel senso che l'offesa superi una soglia minima di tollerabilità e che il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi.